Raccolta dalla discussione su VeLista di Corrado Ricci

In questi ultimi tempi abbiamo discusso molto, in Lista, fra di noi sui problemi relativi alla sicurezza in mare, e ci siamo fra l’altro occupati di un aspetto importante, che qualche volta può assumere caratteri addirittura drammatici, qual è quello del ricupero di una persona caduta in acqua che non sia più in grado di collaborare attivamente coi suoi soccorritori, sia a causa di traumi ricevuti durante la caduta, sia per la spossatezza dovuta alla permanenza in acqua, sia per altre ragioni. Il problema ovviamente si aggrava se le condizioni meteomarine sono sfavorevoli.

Ognuno di noi ha portato nella discussione le sue personali esperienze e le sue opinioni, ed è stato affidato a me il compito di effettuare una sintesi di questa problematica, che troverete qui di seguito. Ho cercato di tenere conto del maggior numero possibile dei contributi affluiti in Lista, e mi scuso di qualche involontaria omissione o errore.

Abbiamo scelto di fermare la nostra attenzione su di una situazione che dovesse verificarsi nelle ore diurne; da quanto diremo apparirà infatti chiaramente che purtroppo, nelle ipotesi prima dette, il ricupero nell’oscurità di un naufrago in cattive condizioni fisiche da parte di un’imbarcazione a vela è un’operazione che presenta notevoli margini di incertezza e mal si presta ad essere programmata in anticipo.

Va infine messo in rilievo, per quanto sia ovvio, che le considerazioni da noi fatte e le soluzioni ipotizzate si riferiscono a barche da crociera di medie dimensioni (12 metri ad es.) e ad equipaggi non professionali mentre navigano sotto spi con 25 nodi di vento e mare formato.

Niente barche avveniristiche, dunque, e tantomeno gente capace di navigare in solitario intorno al mondo, anche se fra noi ci sono fior di velisti.

Ciò premesso, per ricuperare il naufrago bisogna:

  1. Trovarlo
  2. Issarlo a bordo

TROVARE IL NAUFRAGO


L’imbarcazione a vela presenta maggiori problemi rispetto a quella a motore ai fini del ritrovamento di un naufrago. Innanzitutto, mentre l’imbarcazione a motore può invertire immediatamente la rotta al momento della caduta dell’uomo in mare e quindi riesce a non allontanarsi troppo dal naufrago e può ragionevolmente sperare di non perderlo di vista, fattore importantissimo nella riuscita dell’operazione di salvataggio, quella a vela, prima di poter invertire la rotta, deve compiere alcune manovre sulla velatura e poi ritornare verso il punto dove la persona è caduta in mare, procedendo di bolina o a motore ad una velocità tutto sommato modesta. Il ritrovamento del naufrago sarà forzatamente più lento e difficile, perché egli sarà più lontano e più difficilmente visibile. Ecco l’importanza di scegliere la manovra giusta e di effettuarla con la massima rapidità e senza errori. Vale la pena notare che il ritorno a motore sarebbe preferibile perché permetterebbe di seguire una rotta ruotata di 180° rispetto a quella seguita sotto spi e quindi di incontrare il naufrago all’incirca nel punto in cui è caduto in acqua.

Le manovre da compiere alla velatura se la caduta in mare avviene durante la navigazione di bolina sono semplici e ben codificate, e non sono state oggetto di discussione. Se invece l’imbarcazione sta procedendo in poppa e sotto spi, con vento dell’ordine dei 25 nodi e mare formato, le cose si complicano parecchio perché è impossibile invertire la marcia senza aver prima eliminato lo spi. E questa bellissima e potente vela non è una bestia facile da domare se il vento è forte, come si è visto recentemente nella Louis Vuitton Cup, quando equipaggi professionali di 16 persone fra i meglio addestrati al mondo e in perfetta forma atletica, non appena hanno incontrato vento dell’ordine dei 20 nodi hanno cominciato a fare anche loro dei bei numeri come straorzate, caramelle e via dicendo.

La manovra canonica per togliere lo spi e passare all’andatura di bolina consiste, com’è noto, nell’issare prima il genoa per sventare lo spi stesso che viene poi ricuperato filando gradualmente la drizza. La vela va poi cacciata con la massima rapidità sotto coperta evitando che cada in acqua o, quel ch’è peggio, finisca sotto la prua della barca. Però nel nostro caso è una manovra che richiede troppo tempo, anche perché fatta in situazione di emergenza senza una tempestiva preparazione. Fatti i conti, il naufrago corre il rischio di rimanere qualche centinaio di metri indietro e ritrovarlo può essere un problema. Se la barca fosse dotata di rollafiocco è probabile che il tempo totale diminuirebbe, ma non sono emerse opinioni che permettano una valutazione in proposito. La manovra canonica va comunque in linea di massima scartata.

Sulle alternative alla manovra canonica sono emersi sostanzialmente due pareri, entrambi basati sullo “sparare” lo spi. Il primo, che chiameremo manovra “disperata”, prevede di filare di colpo la scotta, il braccio e la drizza dello spi lasciando che se ne vada in mare e si perda, accostando di 90 gradi all’orza e tenendo la randa mollata. Successivamente si riprende il controllo della barca con andatura di bolina verso il naufrago. E’ molto probabile che questa manovra, con vento e onde, sia più facile a dirsi che a farsi e presenti non pochi rischi perché qualche imprevisto nel filare drizza e scotte, o la vela che sbattendo col vento al traverso si impiglia sulle crocette potrebbero impedire il volar via dello spi. Senza contare che la vela e/o le cime ad essa collegate potrebbero finire sotto la barca o peggio nell’elica rendendo di fatto impossibile il recupero del naufrago. E tutto questo mentre il boma della randa, fuori controllo e sotto l’azione del vento e delle onde al traverso, può spazzare la coperta con grave pericolo per l’equipaggio.

Tuttavia questa manovra, nonostante i rischi che comporta, è probabilmente l’unica che si può tentare se a bordo è rimasta una sola persona.

La seconda manovra, che chiameremo manovra “di emergenza”, è una variante della precedente, in quanto prevede di sparare solo il braccio dello spi rendendo immediatamente inoperante la vela, che viene poi ricuperarla come nella manovra canonica, rispetto alla quale (al pari della manovra precedente) si risparmia il tempo di issata e di regolazione della vela di prua. I rischi che lo spi vada fuori controllo sono molto minori che nella manovra “disperata”, perché, anche se lo spi viene ammainato senza la protezione del genoa, rimane pur sempre parzialmente protetto dalla randa, dato che non si accosta all’orza prima che lo spi stesso non sia sotto coperta. Questa manovra è stata spesso provata da me in Sardegna in acque ristrette, però con un gennaker al posto dello spi, e una volta acquisito il preciso coordinamento fra gli uomini si riesce ad effettuarla presto e bene.

E’ appena necessario sottolineare che la manovra “disperata” è quella che riduce al minimo rispetto a quella canonica la distanza fra il naufrago e la barca, mentre quella “di emergenza” è sotto questo aspetto una via di mezzo.

La scelta fra le due può farla solo lo skipper tenendo conto non solo delle condizioni meteomarine ma anche, e diremmo soprattutto, del numero e della qualità dei membri dell’equipaggio.

Per completezza di informazione, prima di chiudere questo punto, è interessante notare che uno dei nostri velisti ci ha comunicato che, con una piccola barca di 7 metri, riesce da solo a chiudere lo spi nella sua calza in circa mezzo minuto. Senza dubbio una bella performance, ma non sappiamo se è fattibile con barche più grandi.

 


ISSARE A BORDO IL NAUFRAGO

Supponiamo che, in un modo o nell’altro, si sia riusciti a ritornare rapidamente indietro e a ritrovare il naufrago, grazie anche alla tempestiva e attenta esecuzione di quanto le norme e la buona pratica marinaresca prescrivono di effettuare al momento della caduta di una persona in mare e delle quali non ci occupiamo in questa sintesi.

Sembrerebbe che il più sia stato fatto, e sarebbe cosi’ se il naufrago fosse in buone condizioni. Basterebbe avvicinarsi con precauzione fino a quando egli non fosse a portata della scaletta, e poi, magari con l’aiuto di una o più mani premurose che lo aiutassero a vincere il rollio e il beccheggio, egli salirebbe a bordo.

Ma se il naufrago non è in grado di collaborare attivamente o al limite è privo di conoscenza ( evidentemente è tenuto a galla da un salvagente lanciatogli al momento della caduta o da un giubbotto che fortunatamente indossava, e diciamo fortunatamente perché sappiamo bene che questo purtroppo spesso non succede ), il più deve essere ancora fatto, specie se si tratta di una persona molto pesante.

Intanto, è necessario che una o due persone (dipende dal peso del naufrago) si gettino in mare assicurati da una cima e lo trascinino fino alla barca. E qui bisogna prendere una prima decisione: dove? A poppa dove c’è la scaletta, il che consente ad altri membri dell’equipaggio rimasti in barca (se ce ne sono) di tentare di afferrarlo

Oppure alla fiancata sopravvento o a quella sottovento ? Le opinioni qui divergono.

Il recupero da poppa viene considerato da alcuni pericoloso perché i movimenti di beccheggio possono ferire il naufrago. Poi si deve esaminare la forma della poppa: se essa è provvista di piattaforma o di una terrazzino poco sopra il livello del mare, sembra ragionevolmente possibile, una volta afferrato il naufrago, trascinarlo fuori dall’acqua e depositarlo sulla terrazzina, e poi, eventualmente imbragandolo in qualche modo, sollevarlo a braccia (se le braccia ci sono, vedi prima) di quanto occorre per farlo entrare nel pozzetto.

Ma se la poppa, come nella maggior parte delle barche a vela, è priva di piattaforma e inclinata, l’operazione, sempre nel caso di una persona molto pesante, è difficile, anche perché lo scivolo poppiero è occupato dalla scaletta su cui non si può trascinare la persona senza il rischio di ferirla; e anche il paterazzo può costituire un ostacolo.

Malgrado queste difficoltà, il recupero da poppa, sempre che il moto ondoso non sia eccessivo, non andrebbe scartato a priori, perché il corpo del naufrago verrebbe introdotto longitudinalmente rispetto alla barca e all’altezza della coperta, senza incontrare l’ostacolo dei candelieri e delle draglie.

Infatti, candelieri e draglie, creati per evitare che una persona cada in mare, sono altrettanto efficaci nell’ostacolare il passaggio di un corpo che, in posizione più o meno orizzontale, si cerca di riportare in coperta dalle murate. Ho toccato con mano una situazione del genere che è stato possibile risolvere, con molta fatica, solo perché la barca era bassa di bordo, il mare calmo e il naufrago, sebbene molto pesante, poteva, sia pur limitatamente, collaborare agli sforzi dei soccorritori (la scaletta si era rotta).

E’ dunque chiaro che il ricupero dalle fiancate richiede un approccio diverso, e numerosi contributi hanno proposto soluzioni anche molto ingegnose, basate sull’impiego dell’albero della barca e del boma per formare un bigo con cui sollevare il naufrago opportunamente imbracato fino a fargli scavalcare le draglie. In sostanza, a parte una proposta di agganciare la drizza della randa direttamente all’imbracatura del naufrago e di sollevarlo quindi con tiro obliquo, le altre prevedono il fissaggio della drizza a mo’ di amantiglio alla varea del boma, a cui verrebbe anche assicurato un gioco di bozzelli (magari quelli della scotta randa) destinati al sollevamento del naufrago con tiro diritto, in quanto il boma può essere fatto ruotare fuori bordo fino alla verticale desiderata. E’ stato riferito che un’operazione del genere, ma evidentemente con mare calmo, è stata sperimentata per calare in acqua e ricuperare una persona che desiderava fare il bagno ma non era in grado di usare la scaletta. Quindi è tecnicamente fattibile, sebbene con barche di una certa dimensione e capaci di reggere gli sforzi a carico della drizza ( dal 20 al 30% in più del peso sollevato ) del boma ( sforzo assiale dal 60 al 70% del peso sollevato) e dell’albero, senza contare la coppia di sbandamento della barca dovuta al tiro obliquo della drizza quando il boma si fa ruotare fuori bordo.

A parte la scelta se tentare l’operazione dalla fiancata sopravvento o da quella sottovento (i pareri non concordano) è la sua stessa natura a lasciare perplessi. Già armare un bigo come quello ipotizzato può presentare dei problemi nella concitazione dell’emergenza, ma il rollio della barca produce delle ampie oscillazioni della testa d’albero e quindi della varea del boma, che si ripercuotono come duri strappi sul gancio di sollevamento del naufrago con sforzi del bigo stesso di entità incontrollabile, ma soprattutto con il rischio di provocare nuovi traumi al naufrago e di mandarlo a sbattere contro la fiancata. E quello che anche lascia perplessi è la necessità, stando in acqua, di imbragare il naufrago in maniera sicura, in modo che non cada e non venga traumatizzato: insomma, un lavoro da alpinisti. In ogni modo, è una cosa che chi è interessato può provare nella bella stagione per vedere se si può fare anche con mare non tranquillo.

Fra gli ultimi contributi pervenuti, c’è stata la segnalazione di un metodo di ricupero trovato in un vecchio manuale nautico, e che sembra molto interessante. Si tratta di adoperare un fiocco a mo’ di amaca, infilandolo sotto il naufrago e poi sollevandolo con una drizza da un capo, mentre l’altro capo è stato fissato verso poppa. Sono state subito ipotizzate delle varianti, come quella di sostituire la vela con una rete per non tirare su anche dell’acqua; la rete peraltro potrebbe ingarbugliarsi attorno al naufrago, con qualche pericolo se il tutto ricadesse in acqua per qualche incidente. A sua volta, un’altra variante suggerisce di confezionare appositamente un’amaca con alcuni fori per far scorrere via l’acqua.

E’ senz’altro una soluzione rapida ed abbastanza sicura, messi a punto alcuni particolari, il più importante dei quali è definire a che altezza massima si può sollevare l’amaca dal lato della drizza senza far scivolar via il naufrago, che quindi andrebbe assicurato. Non va dimenticato, infatti, che dobbiamo scavalcare le draglie, a meno che la barca non disponga di una interruzione delle draglie stesse, una “finestra” lungo una fiancata. Né si può escludere che, a causa dei movimenti della barca, l’amaca si ribalti rimandando in mare il malcapitato, ma bisogna essere realisti, soluzioni senza rischi non ce ne sono. Comunque, penso che alcuni faranno delle prove nella bella stagione per vedere se la cosa funziona e quali accorgimenti la possono rendere più sicura.

E se, nonostante tutti i nostri sforzi, non ci riuscisse di tirar su il naufrago, cosa facciamo? Lo lasciamo ai pesci? C’è ancora una cosa da fare, che non è stata discussa in Lista ma che penso di poter aggiungere qui : gettare in mare la zattera di salvataggio e dal mare adagiarvi il naufrago, in modo da toglierlo dall’acqua e prestargli le prime cure, chiedendo contemporaneamente soccorso via radio.

Anzi l’impiego delle zattera potrebbe essere il primo intervento da attuare, qualora apparisse evidente che la permanenza prolungata in acqua molto fredda come quella dell’Oceano Atlantico ha già inciso pesantemente sull’organismo del naufrago mettendone in pericolo la sopravvivenza.

CONCLUSIONI

La situazione di emergenza ipotizzata nel nostro dibattito è abbastanza difficile (tempo duro e naufrago inabile), ma è stata scelta cosi’ proprio per far emergere i punti critici di questo aspetto della sicurezza per mare.

La discussione non si proponeva certo di formulare delle regole di comportamento, anche perché nella realtà le cose si presentano con tante varianti e sfumature che è difficile definire a tavolino, ma doveva servire a prospettare al responsabile della barca, lo skipper, un ventaglio di soluzioni possibili con i loro pro e contro. Fra queste ed altre soluzioni dei problemi che nella realtà gli si potrebbero presentare, egli dovrà scegliere quella che gli sembrerà la migliore. Detto con altre parole, noi non abbiamo voluto stabilire cosa si DEVE fare, ma piuttosto quello che si PUO’ fare in certe circostanze.

Però non possiamo ignorare che questo dibattito ci ha anche fatto prendere coscienza di alcuni aspetti che stanno a monte di quanto discusso.

Per esempio, è emerso chiaramente che una barca con equipaggio ridotto al minimo naviga in condizioni di maggior rischio rispetto ad una che a bordo conta un maggior numero di persone.

Nella situazione esaminata, le manovre verranno eseguite con maggiore difficoltà dalla barca sguarnita, ed il ricupero del naufrago potrebbe addirittura diventare impossibile se delle due sole persone a bordo una cadesse in mare. Inoltre, in un equipaggio ridotto può accadere che nessuno sia in grado di sostituire lo skipper se gli capitasse qualcosa.

In definitiva, e su questo c’è unanimità anche se può sembrare ovvio, bisogna assolutamente evitare che qualcuno cada in mare, perché dopo non è facile ricuperarlo se fa cattivo tempo e ancor più se è notte. Questo implica tutta una serie di precauzioni, come legarsi in certe circostanze, ed apre una serie di temi, come le cinture, i giubbotti e via dicendo. E poi pensiamo ai bambini, alcuni molto piccoli, che sono capaci delle azioni più imprevedibili.

Insomma, facciamoci tutti l’esame di coscienza quando usciamo in barca, e rispettiamo sempre quello che decide lo skipper perché alla fine è lui il responsabile, sia davanti alla legge, sia davanti alla sua coscienza.

Comments are closed.